NUTRI_MENTI
Obesità infantile
Fattori che contribuiscono a determinare e cronicizzare il problema
martedì 15 gennaio 2013
9.42
L'obesità è da intendersi come un eccesso ponderale per accumulo di tessuto adiposo tale da influire negativamente sullo stato di salute (OMS).
In età adulta il metodo più semplice per determinare l'eccesso di peso (ormai accettato a livello internazionale) è il rapporto peso/statura chiamato Indice di Massa Corporea (IMC = peso in Kg/statura in metri elevata al quadrato). Un IMC > 25 definisce un soggetto sovrappeso, un IMC > 30 definisce un soggetto obeso.
In età pediatrica, in cui c'è la variazione della statura dovuta all'accrescimento, il problema è più complesso; il metodo migliore per la determinazione, riconosciuto da tutti, è comunque l'IMC.
I limiti di normalità, in questo caso, variano in funzione dell'età e del sesso ed i riferimenti più validi per la valutazione nella pratica clinica sono rappresentate dalle curve di crescita che ogni pediatra usa, prendendo in considerazione l'eccesso di peso superiore al 20% rispetto a quello ideale per la statura.
L'obesità è una condizione patologica all'origine di tutta una serie di complicanze importanti, a base multifattoriale, determinata cioè da un intreccio di elementi psicologici, biologici, culturali e ambientali.
In primo luogo si tratta di una eccessiva/cattiva alimentazione, legata o meno ad una ridotta attività fisica e a fattori di tipo genetico/familiare; rari i casi di obesità legati ad alterazioni ormonali quali ipotiroidismo o disfunzioni surrenali. Gli stili relazionali, le modalità comportamentali e la cultura alimentare di ogni nucleo familiare rappresentano ulteriori dimensioni di cui tenere conto per affrontare un problema tanto complesso.
I genitori, spesso molto preoccupati del bambino che a loro parere "mangia poco", non sembrano essere altrettanto attenti all'eccessiva e cattiva alimentazione. Interpretando la fame continua come un segnale di benessere, essi tendono ad incentivarla più che a limitarla, aspettandosi una spontanea perdita di peso con l'età adolescenziale, cosa che avviene solo in particolari casi.
Spesso è proprio questa mancanza di consapevolezza nei genitori della gravità dell'obesità in età evolutiva a ritardare la diagnosi e/o determinare l'abbandono dei trattamenti proposti, soprattutto nei casi in cui il rimedio prescritto dal medico è quello di sottoporre il bambino ad un regime alimentare controllato. La ragione fondamentale per cui questo accade è da ricercarsi nell'inevitabile ricaduta che una "dieta" ha sulle abitudini alimentari della famiglia.
Modificare quantità e qualità dei cibi da portare in tavola significa orientarsi in maniera nuova e consapevole, tanto negli acquisti quanto nella preparazione dei piatti. Cambiamenti, questi, spesso giudicati decisamente troppo impegnativi e perciò presto abbandonati in favore delle vecchie, rassicuranti, anche se nocive, abitudini.
La situazione si complica ulteriormente quando ad essere chiamati in causa non sono soltanto le abitudini alimentari, ma anche le dimensioni psicologiche che sottostanno al comportamento. L'analisi dei bambini in sovrappeso mette in evidenza una certa difficoltà nel riconoscere le proprie sensazioni corporee e la trasformazione in "fame" dei bisogni emotivi. Un insieme di sensazioni apparentemente positive che si sperimentano quando si mangia (gusto, sensazione anche se temporanea di alleviamento della tristezza, dell'ansia, del senso di vuoto) agiscono da "rinforzi" e avviano un circolo vizioso difficile da interrompere.
Sia pure in maniera inconsapevole, spesso gli adulti, non essendo in grado di riconoscere i reali bisogni dei bambini, utilizzano il cibo per placarne le tensioni, sicuri di veicolare in questo modo un messaggio di attenzione e affetto. Una modalità, questa, che può crearsi fin dai primi scambi relazionali tra madre e neonato, in presenza di una scarsa sintonizzazione tra i due. Il rischio è che il bambino non sia in grado di discriminare tra bisogni alimentari ed emotivi che perciò tenderà a soddisfare sempre e comunque attraverso il cibo.
Dalla ricerca emerge, in particolare, come in molti casi la nascita di un fratellino, un clima di conflittualità all'interno della famiglia, l'identificazione con i genitori e l'assimilazione dei loro comportamenti alimentari incidano significativamente sul comportamento nutrizionale del bambino.
Alla luce di queste considerazioni si comprende quanto sia importante lavorare tanto sulle abitudini alimentari quanto sulle modalità relazionali all'interno del nucleo familiare, attivando diversi piani di intervento per trattare in maniera efficace il problema dell'obesità infantile.
Dott.ssa Rosa Tafuni
Psicologa, Specialista in Psicologia Clinica e Psicoterapia
In età adulta il metodo più semplice per determinare l'eccesso di peso (ormai accettato a livello internazionale) è il rapporto peso/statura chiamato Indice di Massa Corporea (IMC = peso in Kg/statura in metri elevata al quadrato). Un IMC > 25 definisce un soggetto sovrappeso, un IMC > 30 definisce un soggetto obeso.
In età pediatrica, in cui c'è la variazione della statura dovuta all'accrescimento, il problema è più complesso; il metodo migliore per la determinazione, riconosciuto da tutti, è comunque l'IMC.
I limiti di normalità, in questo caso, variano in funzione dell'età e del sesso ed i riferimenti più validi per la valutazione nella pratica clinica sono rappresentate dalle curve di crescita che ogni pediatra usa, prendendo in considerazione l'eccesso di peso superiore al 20% rispetto a quello ideale per la statura.
L'obesità è una condizione patologica all'origine di tutta una serie di complicanze importanti, a base multifattoriale, determinata cioè da un intreccio di elementi psicologici, biologici, culturali e ambientali.
In primo luogo si tratta di una eccessiva/cattiva alimentazione, legata o meno ad una ridotta attività fisica e a fattori di tipo genetico/familiare; rari i casi di obesità legati ad alterazioni ormonali quali ipotiroidismo o disfunzioni surrenali. Gli stili relazionali, le modalità comportamentali e la cultura alimentare di ogni nucleo familiare rappresentano ulteriori dimensioni di cui tenere conto per affrontare un problema tanto complesso.
I genitori, spesso molto preoccupati del bambino che a loro parere "mangia poco", non sembrano essere altrettanto attenti all'eccessiva e cattiva alimentazione. Interpretando la fame continua come un segnale di benessere, essi tendono ad incentivarla più che a limitarla, aspettandosi una spontanea perdita di peso con l'età adolescenziale, cosa che avviene solo in particolari casi.
Spesso è proprio questa mancanza di consapevolezza nei genitori della gravità dell'obesità in età evolutiva a ritardare la diagnosi e/o determinare l'abbandono dei trattamenti proposti, soprattutto nei casi in cui il rimedio prescritto dal medico è quello di sottoporre il bambino ad un regime alimentare controllato. La ragione fondamentale per cui questo accade è da ricercarsi nell'inevitabile ricaduta che una "dieta" ha sulle abitudini alimentari della famiglia.
Modificare quantità e qualità dei cibi da portare in tavola significa orientarsi in maniera nuova e consapevole, tanto negli acquisti quanto nella preparazione dei piatti. Cambiamenti, questi, spesso giudicati decisamente troppo impegnativi e perciò presto abbandonati in favore delle vecchie, rassicuranti, anche se nocive, abitudini.
La situazione si complica ulteriormente quando ad essere chiamati in causa non sono soltanto le abitudini alimentari, ma anche le dimensioni psicologiche che sottostanno al comportamento. L'analisi dei bambini in sovrappeso mette in evidenza una certa difficoltà nel riconoscere le proprie sensazioni corporee e la trasformazione in "fame" dei bisogni emotivi. Un insieme di sensazioni apparentemente positive che si sperimentano quando si mangia (gusto, sensazione anche se temporanea di alleviamento della tristezza, dell'ansia, del senso di vuoto) agiscono da "rinforzi" e avviano un circolo vizioso difficile da interrompere.
Sia pure in maniera inconsapevole, spesso gli adulti, non essendo in grado di riconoscere i reali bisogni dei bambini, utilizzano il cibo per placarne le tensioni, sicuri di veicolare in questo modo un messaggio di attenzione e affetto. Una modalità, questa, che può crearsi fin dai primi scambi relazionali tra madre e neonato, in presenza di una scarsa sintonizzazione tra i due. Il rischio è che il bambino non sia in grado di discriminare tra bisogni alimentari ed emotivi che perciò tenderà a soddisfare sempre e comunque attraverso il cibo.
Dalla ricerca emerge, in particolare, come in molti casi la nascita di un fratellino, un clima di conflittualità all'interno della famiglia, l'identificazione con i genitori e l'assimilazione dei loro comportamenti alimentari incidano significativamente sul comportamento nutrizionale del bambino.
Alla luce di queste considerazioni si comprende quanto sia importante lavorare tanto sulle abitudini alimentari quanto sulle modalità relazionali all'interno del nucleo familiare, attivando diversi piani di intervento per trattare in maniera efficace il problema dell'obesità infantile.
Dott.ssa Rosa Tafuni
Psicologa, Specialista in Psicologia Clinica e Psicoterapia