Esiste ancora la poesia dopo Auschwitz?

Alla “Pacelli” una lezione di Storia tenuta dagli alunni. Vivere il passato attraverso le testimonianze

sabato 12 febbraio 2011 09.30
A cura di Anna Maria Colonna
Esiste ancora la poesia dopo Auschwitz? È una delle tante domande che si sono posti gli alunni della scuola media "Pacelli" durante la Lezione di Storia tenuta da loro lo scorso 10 febbraio, data in cui vengono commemorate le vittime delle foibe. I ragazzi hanno letto davanti al pubblico presente frammenti di dolore. La testimonianza di chi ha vissuto sulla propria pelle attentati continui alla vita e alla dignità umana rappresenta una delle più autentiche pagine di Storia.

I lavori di ricerca nascono dall'esigenza di conoscere per non dimenticare. Spesso racconti e ricordi sono intrisi di paura. Quella paura del vuoto che ogni inspiegabile sofferenza lascia. Nei corpi palpita una vita che non è solo fattore biologico, ma anima sopravvissuta all'ultima "lezione dell'orrore", quando gli uomini si avvicinavano alle loro solitudini, incrociando esistenze sconquassate da eventi senza senso.

Gli scritti letti dagli alunni colpiscono allo stomaco. Libri, lettere, pagine di diario in cui l'uomo poteva confessare a se stesso ciò che non avrebbe mai compreso. La tortura della nudità, quel numero inciso con una penna ad inchiostro indelebile. Qualcuno ha definito la Shoah una crisi della storia umana e le foibe tombe senza nome, senza fiori, luoghi in cui regnava il silenzio dei vivi e dei morti. Foibe di roccia, come il cuore dei carnefici.

I ragazzi hanno ripercorso, in occasione dei 150 anni dell'Unità d'Italia, le vicende dell'ultimo '900 con un'attenzione particolare al lato "disumano" della Storia. «Abbiamo cercato di insegnare che cosa vuol dire essere liberi attraverso le parole dei sopravvissuti e di coloro che hanno lasciato una testimonianza», spiega Rosaria Avelluto, una delle insegnanti coordinatrici del progetto, ideato e voluto anche da Annamaria D'Alò. Alla realizzazione della Lezione di Storia ha collaborato Francesco Vitucci, nato a Gravina da una donna di origini greche vissuta nel campo profughi di Altamura, visitato il 10 febbraio dello scorso anno dagli alunni della "Pacelli".

«Mi è capitato di dare una mano ai ragazzi anche lo scorso anno», spiega. «Il campo profughi esistente ad Altamura, sulla strada che conduce a Gravina, fra il campo dei militari e l'Ospedale della Murgia, è stato dismesso a causa dello scoppio di una bombola che, per fortuna, non causò vittime. Lì c'erano profughi provenienti dalla Grecia, dalla Dalmazia e dall'Istria. Molti sono tornati nelle loro terre, qualcuno ha conosciuto amori in territorio altamurano o gravinese, alcuni vivono ancora a Gravina. Diversi parenti di mia madre andarono a Brindisi e a Barletta. Mia madre, invece, avendo sposato un uomo di Gravina, si stabilì in questa città. Gli istriani e i dalmati, che non avevano radici nel Meridione, andarono al Nord. L'eredità che mi ha lasciato mia madre sono ricordi e testimonianze. Come mia madre, mi sento un profugo ed un nomade, perché non ho una terra ancora mia. Sono nato a Gravina, vivo a Poggiorsini, giro per il mondo».

Francesco Vitucci, a conclusione della Lezione di Storia, ha letto una lettera indirizzata alla madre e scritta da un'altra donna, Zaira, vissuta con lei nel campo profughi e poi trasferitasi a Trieste. Ne riportiamo una parte.

Noi avevamo bisogno di comprensione, avevamo bisogno di serenità in quella terra, che era nostra, in quella terra di convivenza multietnica. Purtroppo non è stato così. Qualcuno ha voluto mostrare la propria forza, volle, in quegli anni, dimostrare di aver vinto anche nei nostri confronti e fu così che fece l'unica cosa che era abituato a fare, vendicarsi e uccidere senza ragione logica […]. Per molto tempo noi istriani e dalmati avevamo pensato a prigioni poste nell'entroterra, verso Balgrado o Lubiana, e mai avremmo immaginato che familiari, amici, funzionari della Delegazione Nazionale a Pola sono stati presi e portati via sulle montagne. Ci hanno riferito di camion stracolmi di persone che andavano su e giù per le montagne di Trieste e si pensava alla strada per Lubiana, per Gorizia, ma anche da Gorizia era la stessa storia. Si è scoperto dopo che tutte le cavità del Carso erano diventate cimiteri. Tutti erano entrati nelle voragini e nel buio della terra, nel buio della Storia e questo dopo che avevano festeggiato per la fine della guerra.

«Oggi abbiamo reso giustizia a chi ha creduto nella democrazia e nella libertà», ha sottolineato il dirigente scolastico Maria Bruna Digesù. «La democrazia è un bene che va acquisito e difeso. Siate lievito di buoni sentimenti – ha concluso rivolgendosi ai ragazzi – indignatevi davanti alle guerre e all'ingiustizia umana».



Le parole di alcuni alunni che hanno realizzato la Lezione di Storia

Carla
Ho capito che molti hanno lottato per vivere.

Giuseppe
Un conto è studiare queste vicende sui libri, un conto è impersonarle, le si vive in modo diverso.

Silvia
Un'esperienza che ci ha fatto viaggiare in un passato non molto lontano e che ci ha permesso di approfondire ciò che si studia sui libri.

Pasquale

Un'esperienza diversa da una normale lezione scolastica. L'insegnamento del passato serve a non ripetere gli errori.

Celeste
Mi sono occupata della scenografia, un'esperienza che ci ha permesso di affiancare allo studio anche un approfondimento attraverso i colori e i loro significati. Molti di noi si conoscevano di vista, abbiamo potuto collaborare.

La scenografia
Per rilevare il tema tragico del "Giorno del ricordo" abbiamo pensato all'inconfondibile "grido" delle avanguardie del primo Novecento, l'Espressionismo. Quel movimento fu capace di dare immagine e forma al lato oscuro della coscienza umana, a quei sentimenti collettivi di paura che portarono il genere umano all'autodistruzione. L'Espressionismo, con il suo stile unico, è diventato il nostro Segno, la nostra Denuncia, il modo per porre l'accento sulla continua umiliazione del fratello, il degrado dell'altro, il massacro di intere comunità, lo sterminio. Una scena dipinta, volutamente teatrale, falsa, geometricamente essenziale e deformata. Diverse le modalità espressive scelte: un segno spigoloso e duro fatto con pennellate intricate e nere su un fondo bianco-grigio, forme sintetiche e semplificate fatte di linee tormentate e angolose, effetti luminosi violenti ottenuti con il bianconero acceso da netti colpi di rosso vivo. Ne esce un paesaggio urbano aspro e instabile che si apre, come una ferita, per accogliere la proiezione di foto e documenti già noti, ma sempre agghiaccianti, per inquietare lo spettatore e comunicargli ancora una volta i comportamenti irrazionali degli esseri umani.

Annamaria D'Alo'
e il gruppo di grafici e scenografi